La sera del 4 agosto 1914, poco dopo il voto unanime del governo inglese di appoggiare la Francia dichiarando guerra alla Germania, il ministro degli esteri Edward Grey, osservando le luci di Londra che si spegnevano per il primo oscuramento anti aereo, osservò tristemente: «La luce si sta spegnendo in tutta Europa e non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita». Grey morì nel 1933 senza avere visto riaccendersi quelle luci.
A cento anni di distanza, in tutta Europa sono in corso preparativi per ricordare la prima guerra mondiale. Anche in Italia, un comitato vaglia iniziative e progetti. Per ricordare che cosa? Certo, i 10 milioni di caduti sui campi di battaglia, vittime tanto innocenti quanto l'incalcolabile numero di quelle civili. E poi? La fine di un'epoca? L'accelerazione bellica del progresso tecnico (areoplani, veicoli, sottomarini, comunicazioni, la chimica degli esplosivi)? Il sovvertimento della mappa dell'Europa? La riduzione in povertà di milioni di persone e l'arricchimento di pochi? Il rogo che distrusse la bella Lovanio? L'elenco delle cose da ricordare è senza fine ma, nel ripercorrerlo, si rischia di perdere di vista il significato di quello spegnersi di tutte le luci tra il 3 e il 4 agosto 1914.
A chi vuole capire il significato della prima guerra mondiale consiglio, la prossima estate, una passeggiata sul Monte Piana, elevato plateau accanto alle Tre Cime di Lavaredo, con vista a 360 gradi sulle Dolomiti. Nel maggio 1915 vi salirono italiani da una parte e austro-ungarici dall'altra, scavarono trincee e camminamenti che oggi restano come ferite nel verde e tra le rocce. Occuparono quelle trincee uomini che fino a pochi giorni prima avevano condiviso la caccia, la conquista delle vette con i gentiluomini inglesi, l'uso dei corsi d'acqua per muovere segherie e mulini. Si erano scambiati i frutti del proprio lavoro, avevano sposato le figlie gli uni degli altri. Cortina era austriaca ma San Vito, a pochi chilometri di distanza nella stessa Val del Boite, era italiano. Non serviva passaporto per andare dall'uno all'altra. In un solo giorno tutto finì e quegli stessi valligiani si trovarono a guardarsi con il fucile in pugno da una trincea all'altra, divise da pochi metri di prato roccioso. I morti furono 14 mila, molti di essi per assideramento.
Gli anni precedenti il 1914 furono poi ricordati come Belle époque. E bella apparve davvero l'Europa d'allora nei successivi tragici trent'anni. Fu cantata con nostalgia da Keynes, Musil, Zweig e molti altri. La prima globalizzazione produceva prosperità e prometteva la pace. Le automobili, il telefono, la radio proiettavano tutti verso un futuro nuovo ed eccitante. Dopo millenni di notti buie, l'elettricità diffondeva ovunque luce a volontà.
La luce si spense in quella che Keynes chiamò la "guerra civile europea" ma che, più realisticamente, fu poi definita la "seconda guerra dei trent'anni". La pace di Versailles del 1919 fu solo una tregua densa di recriminazioni, tensioni, soprattutto desideri di rivincita. La risolutezza nel punire la Germania scavò un solco nel cuore dell'Europa, non fu estranea alla Grande Crisi, alla vittoria del nazismo, alla seconda guerra mondiale, più orrenda e sanguinosa della prima. La sorte del ventesimo secolo si giocò tutta, e si perse, nell'estate 1914.
Che cosa si può, dunque, ricordare nel centesimo anniversario del 1914? La domanda, posta da generazioni di storici - come è potuta accadere una tale catastrofe? - rimanda subito all'altra: può succedere ancora? Nell'Ottocento, secolo relativamente pacifico, la borghesia illuminata pensava che democrazia, sviluppo economico e globalizzazione avrebbero rimosso ogni incentivo alla guerra. Ma il rapido sviluppo era trainato da un Paese emergente, la Germania, ansioso di rivendicare un proprio "spazio vitale", la democrazia, peraltro limitata, non metteva al riparo da nazionalismi esasperati e la globalizzazione facilitava il diffondersi del terrorismo anarchico. Nel suo 1914, Margaret MacMillan ricorda un pamphlet inglese dal titolo Made in Germany, nel quale si leggeva: "Cresce un gigantesco stato commerciale che minaccia la nostra prosperità e compete con noi nel commercio mondiale". Sostituiamo Germania con Cina e sembra scritto oggi. I militari, per parte loro, erano convinti che l'economia e la tecnica moderne consentissero guerre lampo, con rapide vittorie senza conseguenze traumatiche. Ma il progresso tecnico rese la guerra molto più sanguinosa che nel passato e ne allungò la durata. La dottrina recente del "colpisci e intimorisci" (shock and awe) assomiglia a quella del blitzkrieg nell'illusione che le guerre possano essere veloci, risolutive e contenute. Ci sono molte differenze ma anche molte somiglianze tra il mondo del 1914 e quello del 2014: il modo migliore di ricordare la tragedia di allora è quello di riflettere su ciò che essa insegna. Un esempio per tutti: non sottovalutiamo la tensione tra la Cina emergente e il maturo Giappone attorno agli scogli disabitati Senkaku/Diaoyu.
Per noi, ricordare la guerra 1914-18 significa soprattutto ripercorrere le ragioni ultime dell'unità europea. Si deve alla visione di uomini di frontiera come Adenauer, De Gasperi e Schuman e alla lungimiranza degli Stati Uniti se "la seconda guerra dei trent'anni" si chiuse con una pace duratura invece che con una nuova fragile tregua. I vinti, Germania e Italia, furono associati ai vincitori in un grande programma di aiuti e prestiti per la ricostruzione passato alla storia come Piano Marshall. A soli sei anni dalla fine del conflitto la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio collocò in un mercato comune risorse per le quali erano state combattute innumerevoli guerre. Il significato economico della Ceca fu relativamente modesto, quello politico enorme: una piccola cessione di sovranità in cambio della pace. È difficile per noi oggi intendere che cosa significasse allora per francesi e tedeschi, sedersi al medesimo tavolo negoziale, con le memorie fresche del 1871, del 1919, del 1931, del 1940-45. Lo fecero, sostenuti dagli Stati Uniti, decisi a costruire una pace duratura. Ci sono riusciti. L'Europa di oggi ha mille difetti sui quali non mette conto ritornare poiché riempiono ogni giorno le pagine di questo e degli altri giornali. Ma quanto è migliore, l'Europa di oggi rispetto a quella del 1919, alla conclusione dell'inconclusiva Grande Guerra, del 1945, ma anche del 1970, del 1989.
Gianni Toniolo
per ilsole24ore.com