Nelle trincee soldati meridionali a fianco dei commilitoni del Nord.

Cento anni possono essere pochi o troppi. Nel caso della Grande Guerra (1914 - 2014) sono l’uno e l’altro. C’è voluto un secolo per riannodare i fili di una storia complessa, spesso lacerante, che ancora oggi fa riflettere. Perché fu proprio questo conflitto a far nascere la nazione dopo sangue, sudore e lacrime. Non solo il Piave ma anche Caporetto, il Grappa, Vittorio Veneto. Dalle vittorie alle sconfitte, dagli oneri agli onori, dal coraggio alla viltà, per la prima volta, il Sud incontra il Nord grazie a un conflitto. In trincea, contro il nemico, ma anche dopo, a guerra finita, quando c’è da rimboccarsi le maniche per gestire l’emergenza profughi e avviare la ricostruzione, due comunità - quella meridionale e del Nordest - edificano, mattone su mattone, l’idea di nazione che ancora oggi non è del tutto immune da divisioni e tensioni. Emblematica una scena tratta dal film La grande guerra (1959) di Mario Monicelli. Alberto Sordi e Vittorio Gassman incontrano degli alpini, affamati come loro: «Avemo fame, semo romani». Risposta: «Anca noaltri gavèmo fame. Eora semo italiani». Uniti nella disperazione ma anche nel riscatto, da Sud a Nord passando per il Centro. Dimensione attuale anche oggi, nell’Italia che arranca.

In verità siamo ancora lontani dal concetto di patria alla francese, Paese dove Pierre Lemaitre, fino ai ieri dignitoso giallista, ora sbanca le vendite (600mila copie vendute in tre mesi, traduzioni in arrivo da tutto il mondo) e vince il Prix Goncourt con un romanzo proprio sulla Grande guerra, Ci rivediamo lassù. Bisogna partire dalla fine, la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917, 350mila fra morti, feriti e sfollati) per mettere a fuoco teoria e prassi della nascita di una nazione. Fino alla vigilia di questa battaglia, il generale Raffaele Cadorna aveva già destituito 217 generali e 255 colonnelli. Questo costante rimescolamento dei comandi (a parte il morale basso per gli inconcludenti attacchi, oltre alle perdite gravissime) non contribuisce certamente all’efficienza dell’esercito. Peraltro non è neanche un esercito di professionisti ma risulta composto di circa 5 milioni di «richiamati»: uomini maturi, strappati all’improvviso dalle loro case, la maggior parte sono contadini. Metà di questi sono utilizzati soprattutto nei reggimenti di fanteria in prima linea, per l’assalto alla baionetta. In media, i meridionali sono alti un metro e 50, un metro e 60. Inevitabile soccombere davanti a nemici alti almeno un metro e 80, un metro e 90. I militari del settentrione (escludendo i reparti degli Alpini che fecero cose veramente straordinarie) di solito servivano in unità più tecniche, distanti dalla prima linea e dai pericoli, ed erano di leva. Anche se non mancano i volontari, la grandissima maggioranza dei militari è costituita dai richiamati provenienti soprattutto dalle regioni meridionali. Alcune brigate divennero celebri come la Brigata Sassari, la Trapani, Cosenza, Catanzaro. La situazione non è molto diversa negli ufficiali di livello inferiore: non sono militari di carriera e sono circa la metà meridionali.

All’entrata in guerra l’Italia schiera soltanto 15.000 ufficiali di ruolo, mentre alla vigilia della tragedia di Caporetto, si registra un profondo cambiamento nelle nostre truppe: 160.000 giovani - non contadini ma inesperti come i meridionali - sono promossi ufficiali. Ed anche questi, circa la metà meridionali, sono chiamati a fare una guerra per la prima volta nel settentrione per ragioni che per molti di loro (e ancora di più per i loro sottoposti) risultano davvero incomprensibili. Non c’è da meravigliarsi se in questa fase risultano rari gli ideali nazionali, né per loro rivestono un significato le distese di roccia attorno all’Isonzo dove, per conquistarle o per difenderle, erano già morti circa 500 mila uomini. È in questi frangenti, quando da una trincea la parola futuro non si pronuncia neanche perché è il presente che sceglie chi deve vivere e chi morire, che metro dopo metro, assalto dopo assalto, prende corpo il concetto di nazione. Inoltre fra vecchi e nuovi ufficiali di quest’altra metà dell’Italia, poiché sono massicciamente impiegati sul campo, in prima linea, ben presto proprio sul campo (molto spesso facendosi onore), mettono in crisi la vecchia casta militare settentrionale che aveva tutto un altro carattere: alla Cadorna. E quindi non solo sul campo ma anche nel quartier generale i contrasti le incomprensioni sono tante, troppe. Con i politici poi - in particolare fra Comando e Governo - si era arrivati ai ferri corti.

Con questa situazione conflittuale e dopo gli interventi bellicosi in Parlamento, l’esercito si presenta sui campi di battaglia in condizioni non certo ideali. Eppure l’Austria, dopo la battaglia della Bainsizza, versa in gravi difficoltà ma sfruttando la grave crisi politica e militare italiana, si persuade della necessità di lanciare una controffensiva prima dell’inverno. Tedeschi e austriaci mettono a punto un grande piano offensivo, che in pratica, altro non è che una normale operazione bellica con delle buone ragioni tattiche e una perfetta strategia che ottiene successo. Il risultato della miopia del comando italiano è che in meno di 48 ore gli austro-tedeschi sfondano le nostre difese sulla sinistra e sulla destra dell’Isonzo e marciano verso Cividale. Udine viene abbandonata, la linea del Tagliamento lasciata al proprio destino. Non finisce qui. La resistenza che le truppe italiane oppongono coraggiosamente sul Piave è celebrata come uno dei momenti culminanti del senso di unità nella nostra storia. Processo, si diceva, tutt’altro che scontato. In verità l’invasione di porzioni non piccole di territorio nazionale, pone per la prima volta l’intero Paese di fronte alla realtà di una guerra la cui evoluzione sta mettendo in serio pericolo addirittura gli esiti delle guerre d’indipendenza.

Lo storico Alberto Monticone ha descritto la reazione a Caporetto come «la presa di coscienza che la guerra era diventata lotta per la libertà della Patria, per la tutela delle famiglie e dei beni di ciascuno e di tutti». Dello stesso tenore, seppure con altre motivazioni, l’analisi che fa un altro storico, Marco Mondini: «Non era mai accaduto, in cinquanta anni di storia unitaria, che un nemico oltrepassasse i confini e minacciasse così da vicino alcune tra le principali città del Paese. Il pericoloso rappresentato dall’invasione - sostiene Mondini - e il panico spesso generato dalla sconfitta, vi era chi parlava di abbandonare tutto il territorio nord orientale ritirandosi dietro il Mincio, fecero sì, tuttavia, che la mobilitazione civile a sostegno delle forze armate fosse assai più e poderosa che in passato». C’è il Piave ma c’è anche Caporetto e ciò che lascia sul terreno della sconfitta. Occupati, bombardati, distrutti, evacuati. E’ proprio con Caporetto che i Comuni conoscono la svolta terribile del conflitto. Circa 5-600mila veneti alla fine sono evacuati dalle città invase o prossime alla nuova linea del fronte, dal Monte Grappa sino al mare, lungo il Piave. Costrette a fuggire all’improvviso, fra novembre e dicembre 1917, migliaia di persone sono distribuite in tutta la penisola, da nord a sud.

È l’altra pagina della costruzione dell’unità nazionale: il post conflitto. Non più militari in divisa, baionette e gavette ma uomini che scoprono di essere italiani attraverso una delle più massicce migrazioni interne nella storia del Paese. Contadini che non avevano mai lasciato i loro paesi sull’altopiano di Asiago, nelle campagne di Treviso o sui colli di Padova, sono caricati in tutta fretta su treni speciali. Destinazioni: Emilia Romagna, Piemonte ma anche Puglia, Campania, Calabria. E’ il secondo incontro fra nordest e sud, dopo quello sui campi di battaglia. Un’epopea spesso drammatica, che comunque, alla resa dei conti, offre un finale "costruttivo", a futura memoria. L’accoglienza degli sfollati veneti nei paesi e nelle città del meridione è comunemente interpretata come un attestato di solidarietà nazionale collettiva, una delle tappe felici nel lungo cammino del Paese per risollevarsi dalla tragedia di Caporetto. La realtà è più complessa, meno scontata. Lo storico Mondini si sofferma su un aspetto particolare: «Dalle lettere dei profughi e dalle relazioni ufficiali reperibili negli archivi, emerge come i rifugiati fossero spesso visti con sospetto dagli abitanti di molte città "ospiti" e come i veneti fossero una massa di rozzi alcolizzati.

Dall’altra parte, - riflette - i veneti e i friulani che ebbero la sorte di venire destinati a sud non lesinarono parole acrimoniose nei confronti dei presunti ospiti. Le abitudini e le condizioni di vita dei meridionali apparivano incomprensibili, primitive o addirittura animalesche». Eppure è proprio in questo incontro - scontro che si sviluppano le radici di un sentire comune, un senso di appartenenza a qualcosa di grande, molto grande che sta prendendo corpo: l’idea di nazione. Divisioni lunghe secoli, incomprensioni dure a morire, piccole patrie locali, cedono lentamente il passo e non senza sacrifici, al concetto in potenza di patria. Nel giugno 1918 gli austro - ungarici tentano un’ultima volta di bissare il successo di Caporetto (è la battaglia del solstizio) ma l’offensiva è bloccata sul Grappa e respinta sul Piave. Per arginare l’avanzata delle truppe asburgiche, lo stato maggiore dell’esercito italiano decide di far saltare anche le idrovore. Risultato: si allaga tutta l’area del basso Piave, quasi 40mila ettari di colture sono irrimediabilmente distrutte. Lo scenario è desolante. Le campagne sono devastate, la quasi totalità del tessuto produttivo del Veneto è compromesso. Così quando la IV armata del generale Giardino avvia sul massiccio del Grappa quella che poi sarebbe stata la battaglia di Vittorio Veneto, la popolazione tocca con mano i costi effettivi (e micidiali) della guerra.

Anche questa è una figura fra le pagine più significative della Grande Guerra. Presto, al lavoro dei veneti, si affianca quello dei meridionali. Reduci, parenti, amici delle truppe meridionali lavorano gomito a gomito nella ricostruzione del territorio. Giorno dopo giorno, lo sforzo è incessante. L’obiettivo è ridare un volto ai luoghi naturali di una nuova comunità che trae forza dalla solidarietà e dalla reciprocità. Un sentimento forte ma sofferto. Anche la letteratura ha un ruolo cruciale. Si devono alla penna di Giovanni Comisso alcune delle pagine più belle sul conflitto. In Giorni di guerra, non un diario ma il racconto di un’avventura, lo scrittore offre al lettore un affresco intimista del conflitto, vissuto alla pari dagli uomini del Sud e del Nord: «C’è la gioventù dei soldati che la notte rincorrono le lucciole e il mattino si arrampicano sui ciliegi, la dolcezza delle donne friulane, i bagni estivi nel Natisone, l’eleganza degli ufficiali, la stanchezza dei reduci dal fronte scaturiscono naturalmente. Lo stesso, - riflette Comisso - può dirsi per le situazioni della guerra: la serenità improvvisa a pochi passi da un terreno devastato dai bombardamenti, la disfatta di Caporetto percepita come linea d’ombra, la solidarietà che nasce nelle pause o nei momenti più bui dell’immane e incomprensibile tragedia che unisce tutti». Già, una tragedia. Che accomuna Sud, Centro e Nord. E da cui nasce la nazione.

Massimiliano Melilli - corrieredelveneto.corriere.it

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