Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca È il mio cuore il paese più straziatoSan Martino del Carso Arriva dal museo ungherese dove i soldati l'avevano portato come reliquia.
La famosa poesia di Giuseppe Ungaretti San Martino del Carso porta, sotto il titolo, l’indicazione inequivocabile di un luogo e una data: Valloncello dell’Albero Isolato, il 27 agosto 1916. «Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro...». Quei versi furono scritti dal giovane soldato Ungaretti nei pressi della sola pianta che sarebbe rimasta in piedi sul campo di battaglia e che segnava il confine tra l’esercito austroungarico e quello italiano: l’«albero isolato» serviva da punto di riferimento altimetrico per le mappe italiane utili alle operazioni belliche del Monte San Michele.
Sia pure ridotto a brandelli, come i muri della celebre frazione di Sagrado, nel Goriziano, non c’è albero che abbia conservato tanto valore simbolico, al punto da diventare monumento storico. Venne infatti tagliato e portato in patria come una reliquia dai soldati ungheresi del 46° reggimento in ritirata: per loro era l’«Albero di Doberdò». Da allora, quel tronchetto secco come uno scheletro, ferito a morte e traforato dai colpi incrociati e dai bombardamenti, è rimasto nel Mòra Fenec Muzeum di Szeged, ma adesso torna nei luoghi in cui è cresciuto, cioè appunto a San Martino, grazie a una mostra (che si apre il 30 marzo e rimane aperta fino a giugno) intitolata «Il poeta Ungaretti e l’albero isolato» e curata dallo storico Lucio Fabi.L’alberello, il cui valore era condiviso dagli eserciti contrapposti, era un gelso, piantato in una terra di nessuno in mezzo alle trincee e destinato a rimanere in solitudine tra le pietraie e le macerie, accanto alla cosiddetta Cappella Diruta, l’antica chiesa del paese, ridotta a un rudere. Il fante Ungaretti, che combattè in prima e seconda linea dal dicembre 1915 all’agosto dell’anno dopo tra sofferenze e malattie, dedicò alla guerra carsica i suoi primi versi, che sarebbero confluiti nella raccolta d’esordio. Porto sepolto verrà pubblicato a Udine in ottanta copie quello stesso anno, grazie al tenente-stampatore Ettore Serra, conosciuto nelle retrovie. Tra i componimenti di quel periodo tragico, si trovano molte delle poesie ungarettiane più celebri, compresa Veglia: «Un’intera nottata / buttato vicino /a un compagno / massacrato...», scritta sotto Cima 4 il 23 dicembre 1915 su frammenti di carta recuperata qua e là, come le altre.Di recente, come ha raccontato Fabi sul quotidiano di Trieste Il Piccolo, è stata trovata una fotografia inedita (la pubblichiamo in questa pagina), che ritrae il poeta ventottenne, in secondo piano, con l’elmetto in testa e la giacca della compagnia presidiaria della Brigata Brescia, circondato da un gruppo di commilitoni in attesa del rancio sulle pietraie del monte San Michele. Siamo nell’estate del 1917, quando Ungaretti, provato fisicamente e psichicamente dagli orrori della trincea e dichiarato non idoneo al combattimento, era già stato trasferito a mansioni burocratiche. «Ero in presenza della morte, ? annoterà il poeta ? in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo terribile (...). Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione». L’appuntamento di San Martino del Carso, che si onora dell’adesione del presidente Napolitano, prevede anche conferenze, proiezioni di documentari e film ed escursioni nei luoghi delle battaglie che avvennero un secolo fa. E che furono la prima musa del poeta: poesie apparentemente facili, che sembrano scheletriche come l’Albero Isolato che campeggiava in mezzo a uno scenario funesto di macerie.
Stefano Paolo - Corriere della Sera