Credo che solo un genio potesse sintetizzare il significato di un conflitto moderno e di massa come la grande guerra in otto parole divise in quattro versi. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Giuseppe Ungaretti racchiuse in quella lirica tutti i sensi, tutte le percezioni, tutta la drammaticità che pervase gli uomini che combatterono nelle trincee europee nel tragico quadriennio 1914-18.
La caducità della vita, cui ogni soldato era legato come da un filo sottile, in grado di essere spezzato dal vento, freddo, di una stagione che prepara l’inverno. Perché forse a quella guerra ne sarebbero seguite altre e allora il sacrificio di milioni di giovani vite correva il rischio di essere stato invano. Poteva permettersi la società europea di mettere in gioco tante risorse per nulla? E ancora, perché la guerra? Eppure c’erano stati fermenti intellettuali convinti. Il radioso maggio italiano, nel 1915 che solo oggi evoca nefasti presagi, era stato l’esplosione di sentimenti, di idealità, di spinte rigeneratrici. La guerra avrebbe cambiato tutto, costruito una società diversa, un paese migliore.
Era, per molti, una tappa obbligata. Come tanti giovani anche Ungaretti che giovanissimo non era, ma che era stato da subito interventista, si era arruolato in fanteria e venne mandato a combattere sul Carso, proprio là dove, secondo la strategia principe del generalissimo Cadorna, si consumava la serie delle spallate che dovevano fiaccare il nemico per stremarlo, in vista della dilagante orda italiana verso oriente, verso Lubiana, verso Vienna, agognate mete dal profumo di vittoria. Ma la guerra non è solo slancio ideale, non è solo un’operazione su carta che sposta divisioni e reparti, supera ostacoli segnati a matita, fissa con segnalatori obiettivi prossimi.
La guerra è molto di più. È il fango della trincea, il reticolato, il fuoco delle artiglierie e delle mitragliatrici. La guerra è attendere il pessimo rancio che pare non arrivare mai e il consumarlo tra il puzzo dei cadaveri in decomposizione. La guerra è la morte, il compagno con cui parlavi e che viene colpito da una scheggia che non si era nemmeno sentita. Ecco allora la veglia del soldato: Un’intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d’amore Non sono mai stato Tanto attaccato alla vita. La guerra è il senso di appartenenza a un reparto, il desiderio di un periodo di riposo, il collegamento con la famiglia e le persone che si sono lasciate a casa, e che attendono notizie.
E allora ecco ancora il soldato Ungaretti produrre parole intrise di tristezza: Di che reggimento siete fratelli? Parola tremante nella notte, Foglia appena nata, nell’aria spasimante, involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità. Fratelli. Ma ancora più toccante è una testimonianza video del grande poeta, che negli ultimi anni della vita aveva maturato una concezione pessimistica e catastrofica di ogni conflitto, mediata dal dramma della sua esperienza. Disse, in quell’intervista, che la guerra l’avevano voluta perché erano convinti che sarebbe stata l’ultima, quella che avrebbe liberato l’uomo da tutte le guerre.
Ma la guerra non libera mai l’uomo dalla guerra e rimane sempre l’atto più bestiale dell’uomo. Un uomo che, anche attraverso l’imperialismo dimostra che cessa mai la voglia di dominare attraverso la violenza. Mi sembrano pensieri densi di significato. Mi pare di aver spiegato il perché, per capire la portata del suicidio d’Europa, possono bastare tre poesie. E perché anche un vecchio interventista può produrre un manifesto di pace. Noi italiani non possiamo dimenticare il soldato Ungaretti.
Leonardo Raito - unita.it