Nel 1937 il regista Jean Renoir racconta una guerra lontana dalle forme stereotipate. Dove il protagonista dell'azione non è l'odio di due schieramenti ma l'umanità dei personaggi in scena. Simbolo del crepuscolo del XIX secolo, dei suoi valori e ideali
La grande illusione è un film che parla di guerra senza mai mostrarla direttamente. Il regista, Jean Renoir (1894-1979), figlio del pittore impressionista Pierre-Auguste, racconta così la genesi di questo film, ancora oggi ritenuto tra i massimi vertici del cinema mondiale: «La mia era una banale storia di evasione.
Una delle ragioni che mi ha spinto a fare di questa storia un film è stata la mia irritazione nel vedere come veniva trattata la maggior parte dei soggetti di guerra. Figuratevi! La guerra, l’eroismo, le stellette, i crucchi, le trincee, un bel po’ di motivi ad uso dei più penosi stereotipi. O si sprofondava, nel dramma e non si veniva fuori dal fango, che era comunque un’esagerazione. Oppure la guerra diventava uno scenario da operetta».
Boëldieu e Maréchal vengono abbattuti mentre sono in perlustrazione con il loro aereo e fatti prigionieri dai tedeschi. Ma questa scena non viene mostrata. Renoir semplicemente la omette; la macchina da presa lascia i due in procinto di partire, quindi li mostra accolti alla tavola del tedesco von Rauffenstein che li tratta con il rispetto dovuto a dei pari grado. Una scena iniziale che stupisce: la guerra non dovrebbe essere fatta di nemici contrapposti mossi unicamente dall’odio reciproco?
Renoir risponde di no e lo riafferma durante tutto il film. Nel campo di prigionia, francesi, tedeschi e inglesi, prigionieri e carcerieri, vengono mostrati nella loro umanità, fatta di amicizia e quotidiana condivisione. Senza dimenticarsi di essere comunque in guerra: non mancano infatti tentativi di evasione, rivolte sulle note della Marsigliese per ogni vittoria francese e conseguenti repressioni per mantenere la pace nel campo. Ma quello che non viene mai meno è la coscienza di trovarsi innanzitutto di fronte a uomini. Afferma ancora Renoir: «I personaggi de La grande illusione sono la replica esatta di come noi eravamo, noi La “classe 14”. Ero ufficiale durante la Grande guerra e ho conservato un vivo ricordo dei miei compagni. Nessun odio ci animava nei confronti dei nostri nemici. Erano dei buoni tedeschi come noi eravamo dei buoni francesi». Tutto il film non è altro che un accorato appello ad andare oltre le divisioni per incontrare l’altro, per costruire insieme a lui un mondo senza guerra, fondato su un umanesimo autentico.
Questo mondo, quando il film venne realizzato, era già irrimediabilmente finito. La figura di von Rauffenstein, il reduce di un mondo passato, rinchiuso nel suo busto di ferro per poter stare in piedi, diventa il simbolo del crepuscolo del XIX secolo, con tutti i suoi valori e i suoi ideali, per cui anche il nemico era innanzitutto un uomo da onorare. E forse di cui poter anche essere amico, fuori dalle rigide regole della guerra. Ma nel 1937 i tempi erano profondamente cambiati: nuovi venti di guerra si stavano alzando dalla Germania nazista, l’odio aveva preso il posto dell’onore e il nemico era diventato solo un ostacolo da eliminare, il prima possibile. Una nuova “grande illusione” stava per investire l’Europa e il mondo intero.
La grande illusione (La grande illusion, FR 1937) di Jean Renoir
con Jean Gabin, Dita Parlo, Pierre Fresnay Erich von Stroheim, Marcel Dalio, Julien Carette, Georges Péclet, Werner Florian, Jean Dasté, Sylvain Itkine, Gaston Modot.
Luca Marcora - tracce.it