Quella che si apprestava ad affacciarsi al primo grande conflitto su scala mondiale era una Italia totalmente digiuna di una classe politica che conoscesse a fondo la politica estera; un vulnus questo destinato paradossalmente a danneggiare la nostra situazione più dopo la fine della guerra che al suo inizio. In molti sostengono che il disinteresse del nostro Paese verso la politica estera fosse da attribuire alla bruciante sconfitta di Crispi in Etiopia che mise una pietra tombale alle ambizioni italiane nel Corno d'Africa. Ma una spiegazione del genere appare un po' troppo semplicistica.
Altre due, come minimo, sono le cause di questo vizio: grazie (o per colpa) del trentennale patto della Triplice alleanza voluta dalla sinistra storica in chiave antifrancese, i rapporti diplomatici con l'Inghilterra e la Francia, cruciali per il nostro Risorgimento, si raffreddarono alquanto in sfregio alle sempre più forti nascenti tendenze irridentistiche: non è un caso che il primo embrione di guerra fredda, intesa come contrapposizione di “blocchi”, si ebbe proprio nella seconda metà del XIX secolo con la contrapposizione tutta in chiave difensiva tra Triplice alleanza e Triplice intesa.
Ma non solo: il problema va individuato anche all'interno della classe dirigente dell'epoca domandandoci, in primo luogo, quale potesse essere il motivo di un disinteresse del genere verso un'arte di governo alla quale la tradizione italica aveva da secoli dato lustro.
Ebbene la spiegazione è abbastanza evidente. La classe politica del primo Risorgimento, quella dei D'Azeglio, dei Cavour, dei Minghetti, dei Visconti-Venosta era stata costretta, per propria natura, ad interfacciarsi con le potenze estere: la loro lingua e la loro testa era in francese. L'italiano lo usavano poco, forzatamente e male. Il Risorgimento italiano e l'unità susseguente non fu, come è noto, il frutto di una “rivoluzione” ma di una talvolta sterile trattativa tra potenze, molto spesso svoltasi per via diplomatica quasi sempre fuori dai (futuri) confini nazionali. Quella classe politica non poteva permettersi il lusso di dedicarsi pure alla situazione interna come l'ordine pubblico (infatti dilagò il brigantaggio), l'istruzione (analfabetismo sopra il 90%), l'economia e il benessere (non a caso milioni di italiani emigrarono): per portare a termine la missione della costruzione di uno stato unitario essa si trasformò (o non smise di essere) classe diplomatica e, in questo contesto, in pochi anni il progetto venne alla luce.
Tuttavia, la classe politica liberale che seguì a quella risorgimentale, fece l'esatto opposto. Risolto l'obiettivo primario tutte le energie vennero dedicate per la costruzione di un apparato interno. La politica estera, salvo poche e fallimentari incursioni di Crispi, fu derubricata come un tema di secondo ordine. Così Depretis che preferiva, a differenza di Cavour, governare coi prefetti piuttosto che con gli ambasciatori e così, soprattutto, Giolitti, primo grande esponente non proveniente dalla stagione risorgimentale che, a differenza dei suoi predecessori, da buon borghese, non conosceva neanche le lingue straniere. Proprio mentre, contrariamente alla sua natura e alla sua storia personale, cominciò ad interessarsi anche di ciò che accadeva fuori dai confini nazionali con la spedizione in Tripolitania, nel nostro Parlamento era fresco il dibattito sul suffragio universale, decennale pallino giolittiano che di “estero” aveva veramente poco.
Era più o meno questo il panorama quando, mentre la politica cominciava a essere nuovamente interessata a ciò che accadeva fuori dai suoi confini, il dibattito culturale dominato da Marinetti e poco più tardi da D'Annunzio evidenziava come le sconfitte del post-Risorgimento come Lissa e Adua ci avevano tagliato fuori dal panorama mondiale che contava: l'Italia, per nome e per prestigio, stava assistendo senza batter ciglio alla spartizione del mondo. Nascevano imperi coloniali grazie ai quali progredivano nazioni considerate “inferiori” per cultura e storia mentre l'Italia, dalla storia millenaria, era più miseramente alla presa con i ricatti e i piccoli giochi del nauseabondo Transatlantico. Un seme che trovò poi, qualche anno dopo, terreno fertile nel fascismo e che, su questo terreno, cominciò a gettare le proprie radici ideologiche.
Simone Santucci - loccidentale.it